Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


mercoledì 23 aprile 2014

Fuori dai bordi e dalle bordure.


Come ippopotami o giraffe abituati a gabbie troppo strette e a cibo garantito quotidiano, araucarie, aceri palmati e palme sonnecchiano quasi tutto il giorno negli zoo delle villette a schiera che si susseguono –più o meno grandi, più o meno nuove- in questo angolo di mondo, e in molti altri. Giardini rocciosi, anfore sdraiate, bordure colorate e verdissimo prato inglese. Ogni foglia e filo d’erba addomesticati e convertiti alla religione dell’ordine e del decoro, che niente è per caso e tutto sostiene un’immagine da difendere. Ciò che sì è o ciò che a fatica si è diventati. Generazioni di scarpe sporche di fango e unghie di terra, di bocche sdentate e di amara cicoria, di salire sui ciliegi e stare chini nell’orto o a raccogliere castagne, giorno dopo giorno a diventare vecchi, e ora è anche comprensibile, che campagna sia una brutta parola, e l'ansia di togliersi di dosso l’odore del maiale e di legare alla catena il labrador o il cavalier king, che di cani da pagliaio non se ne può più, e di aie e di galline.  E sognare un appartamento al secondo piano, con veranda e balcone, a cui appendere gerani dello stesso colore, possibilmente un po’ più belli di quelli del vicino.
Però la primavera esce dai bordi e dalle bordure, e impone alle creature addomesticate, complici di questo perfetto piano di espunzione del vivo, una volontà difficilmente eludibile, un’ansia di fuga. Come vento improvviso, la primavera spettina l’erba, semina fiori là dove non dovrebbe, persino buca cemento e piastrelle.  Cascate di nasturzi invadono la via, viburni palla di neve si sporgono a toccare i passanti, lillà esuberanti ricordano tempi di nonne con grembiule e fazzoletto, i glicini, soprattutto, occupano intere cancellate e tutto lo sguardo e tutti i sensi.  I cani strappano la catena e i gatti scappano per i campi perché inizia la stagione degli amori.
E per  fortuna i soffioni vincono sempre, con i loro squillanti e disordinati fiori gialli, e non c'è tosaerba che tenga.

giovedì 17 aprile 2014

La pace delle cose selvagge.


Di lui si sa molto, come in rete di (quasi) tutti. Un nome ignoto si compone su google in caleidoscopi di saggi, wikipedie, conferenze e aforismi, e così scopro che un "contadino del Kentucky" diventa faro per orticoltori biodinamici, fricchettoni vegani e anche per Oscar Farinetti. Scopro un volto molto anglosassone, scopro un vecchio signore che sorride insieme a Obama, un attivista che è stato in Italia e che gira il mondo a perorare la causa di un'agricoltura pulita buona e giusta. Scopro che ne vorrei sapere di più e che un pochino mi sono già stufata per ragioni molto ben spiegate qui.

In fondo, di tutto, ciò che davvero mi rimane sono i versi scoperti ieri, che da soli bastano a giustificare (per me) l'esistenza di Wendell Berry, ché ne condivido ogni lettera e respiro.


La pace delle cose selvagge

Quando cresce in me lo sconforto per il mondo e di notte mi sveglio al minimo rumore  per la paura di cosa sarà della mia vita e delle vite dei miei figli, vado a stendermi dove l'anatra del bosco riposa la sua bellezza sull'acqua, e il grande airone si ciba. Vado nella pace delle cose selvagge che non appesantiscono la loro vita con previsioni di dolore. Vado alla presenza dell'acqua ferma. E sento sopra di me le stelle che, cieche di giorno, aspettano con la loro luce. Per un momento riposo nella grazia del mondo, e sono libero.
Wendell Berry, New York, 1985

domenica 13 aprile 2014

Il nostro bisogno di benedizione.


Ulivi o palme intrecciate. O anche entrambi, in mano a signore più o meno anziane, mariti in equilibrio tra giornale e pasticcini, bambini sventolanti dai passeggini, e in realtà in mano un po’a tutti sul sagrato, a immaginarsi “strumenti di pace”, come da dentro la chiesa canta stonata la canzone.  
 “Strumenti di pace, strumenti d’amore”. Sarebbe senz’altro bello essere così, e bastasse un ulivo  per compiere la trasformazione. Ma riflettendoci, bello lo è, e subito, e ora, avere a portata di mano un rito di benedizione. La si pensi come si vuole, o come si può. Non entro in nessun merito religioso, che ognuno –e io per prima- si rivolga in libertà ai suoi numi ai suoi lari ai suoi penati o alle sue stelle (rivolgersi a nessuno è molto molto difficile e non invidio chi ci riesce). Dico soltanto grazie per una benedizione semplice umile e gratuita di un rametto d’ulivo, che non si sa mai, e sta bene in mano.
Oggi per i cattolici è la domenica delle Palme e davanti alle chiese si benedicono i rami d'ulivo. In Liguria (e forse anche altrove) c'è la tradizione delle foglie di palma intrecciate.

venerdì 11 aprile 2014

E poi Paulette. E poi...


Ci sono libri  anche molto amati, che quando si ha finito di leggerli si vogliono tenere per sé, o condividere solo con un proprio cenacolo ristretto. Libri difficili, da iniziati, che solo alcuni possono capire, o addirittura quasi nessuno (e questa è sempre un’illusione).  Libri che schierano, che dividono o che fanno litigare. Ne conosco tanti di libri così, e il sentimento dell’esclusività mi accompagna in molti miei incontri, letterari e no.
Ecco. “E poi Paulette” di Barbara Constantine è diverso, anzi, è davvero il contrario. È un libro che, se già appena lo inizi desideri condividerlo, quando l’hai finito non ne puoi fare a meno. Con tutti, colti e ignoranti, lettori e televisori, giovani e vecchi, romantici e –soprattutto-cinici. Basta che siano un po’ amici. Io l’ho finito ieri e la sua semplicità intelligente e lieve mi ha riconciliato subito con la definizione “per tutti”, presuntuosamente disdegnata da chiunque “tutti” non si senta.
Se fosse un film l’avrebbe diretto Kaurismaki, se non fosse ambientato in un villaggio francese, potrebbe essere narrato in Toscana, in Puglia, in Sicilia, in Irlanda, in qualche Sudamerica da realismo magico, ma anche in un'isoletta delle Cicladi. Mi piace pensare che la sua storia già avvenga nelle case di ringhiera dei quartieri popolari e negli orti vicino alla ferrovia. Ha come protagonisti dei vecchietti, dei giovani e degli animali, e dei bambini piccoli. Degli orti e una campagna che diventa rifugio tutt’altro che arcadico e statement di un modo di essere e agire nel mondo.  Buoni sentimenti senza zucchero, ma con qualche lacrima, venati di ironia gentile e comprensione saggia per la fatica quotidiana di ogni specie vivente. Molti buchi, come nella vita. Parla di condivisione e di sorprese e sicuramente di “un altro mondo è possibile”,  dove la generosità senza presunzione è più rivoluzionaria delle molotov.  Invita a guardarsi intorno, a smettere di complicare quello che tutti sappiamo d’istinto, e a guardare con occhi teneri e nuovi vecchie signore, asini, cani, gatti e violoncelli. E a cercare case con molte stanze e con un orto davanti.
Consigliato a: tutti, ma in particolare a chi persevera nella difesa della limpidezza di sguardo, agli ingenui, ma anche ai cinici per contrappasso, a chi condivide un orto comunitario e a chi lo vorrebbe, a chi legge Latouche e a chi sa che dovrebbe, ma non ne ha tanta voglia, agli artefici di co-housing, co-working e compassione, a chi non volta lo sguardo dall'altra parte. Va bé, a chi almeno ci prova.

giovedì 3 aprile 2014

Green Utopia al Fuori Salone 2014.




Piace, non piace, dispiace. E tutto questo insieme. Il Fuori Salone è l'evento fighetto di chi vuol essere creativo e di chi vuol dire la sua, e dire che c'era. Dal mio punto di vista, ho sempre preferito il balcone al Salone e il fuori al Fuori Salone. Sono per natura più disordinata degli architetti e più a-progettuale dei designer. Adoro l'architettura spontanea (quella definita vernacolare), la casa organica di Maruzza Musumeci e mille altre cose che starebbero nel Design District come gatti in gabbia, se mai a qualcuno venisse in mente di metterceli.
Sarò pure via, in quella settimana, e un po' mi dispiace, a dire il vero. Avrei voluto, almeno un poco, girare per la città tra baffi, borse di tela e passeggini tre ruote da nord Europa, a cercare sentimentalismi verdi e giardini segreti, sperando di non incappare negli ennesimi bancali reuse e negli orti da balcone o da scrivania (e tantomeno nei boschi verticali!).

Chissà come sarà la Green Utopia alla Fabbrica del Vapore di via Procaccini? Il comunicato stampa usa il solito linguaggio che respinge contadini e passeri,

"visitando GREEN UTOPIA, uno degli eventi di SHARING DESIGN, la manifestazione a cura di Milano Makers, si potranno toccare con mano le proposte più innovative dell’abitare e del vivere green. La città vegetale vivrà di giorno con laboratori e workshop operativi di autocostruzione mentre la sera si accenderà di luci, proiezioni, musica, teatro, performance trasformando l’utopia green in uno spettacolo continuo. Il focus di attenzione è verso le tecniche dell’architettura vegetale e alternativa. L’uso in architettura e design dell’elemento vegetale, considerato come materiale primario della costruzione, è un nuovo atteggiamento che considera il verde come l’ambiente ideale per la vita dell’uomo. La città che ne deriva tende a portare dentro di sé la foresta togliendo il confine fra natura e costruito".

ma so che c'è Lorenza Zambon, il 12, a presentare il suo libro, e già per questo ne val la pena, e poi altre cose  fragili di paglia e fili d'erba che indagherò, almeno virtualmente.

E chissà la Cascina Cuccagna? Lì di sicuro baffi, bambini e bancali, ma magari anche qualche buona scoperta.